I Volti Nuovi del Gruppo, Mattia Viel: “La bici come scuola di vita. Boonen idolo, ma io cerco una dimensione diversa”

Inizia oggi il nostro viaggio alla scoperta dei Volti Nuovi del Gruppo nella stagione 2019. Attraverso questa rubrica andremo a presentare i corridori italiani che si affacciano quest’anno tra i professionisti. Il primo appuntamento ci porta a conoscere Mattia Viel, 23enne torinese di Gassino proveniente dalla formazione britannica Holdsworth (dopo aver fatto già una interessante esperienza anche in Francia) che ha compiuto il salto nella Androni -Sidermec dopo aver già sostenuto due periodi da stagista (nel 2015 e 2018) alla corte di Gianni Savio.

Come ti sei avvicinato al ciclismo?
La passione me l’ha trasmessa mio padre che da giovane ha corso fino ai dilettanti e io ero incuriosito e affascinato dalle sue foto appese sulle pareti di casa. Si è sempre parlato di ciclismo in famiglia, anche se inizialmente lui non voleva che praticassi questo sport. Da piccolo ho giocato anche a calcio e basket, ma alla fine ho ‘vinto’ io. A quell’età gli sport sono soprattutto giochi, mentre il ciclismo è già fatica. È lo specchio della vita, fatta di salita e discese e nella quale bisogna stringere sempre i denti. È fatica, voglia di fare e disciplina. Per me ha rappresentato una scuola di vita, accentuando quella passione che già girava in casa. Ho iniziato a pedalare a 10 anni, poi si è ammalata mia madre che è venuta a mancare e ho ripreso nel 2006, senza alcuna pressione. Ben presto il gioco si è trasformato in lavoro, anche perché ho sempre avuto le idee chiare in merito e la fortuna di vincere spesso perché avevo stimoli e rabbia.

Presentati a chi ancora non ti conosce: che tipo di corridore sei?
Sono un corridore abbastanza completo, ho sempre fatto parecchia pista e questo mi aiuta ad avere uno spunto veloce. Inoltre mi so difendere bene a cronometro perché ho un buon passo e me la cavo anche sui percorsi misti. Nel ciclismo odierno, che non ti aspetta, bisogna trovarsi in fretta un ruolo e conoscere le proprie possibilità. Penso che potrei essere un buon uomo squadra, mi vedo così. Ho già corso nelle Continental e fatto due stage con l’Androni, trovandomi ad Hainan e in Cina a tirare per capitani come Ballerini, Masnada e Frapporti. Ho quella resistenza che mi permette di stare chilometri e chilometri a tirare per favorire il capitano o lo spunto veloce dello sprinter. Mi piacerebbe diventare, stando alle regole della squadra, un buon ultimo uomo per le volate e sfruttare le mie occasioni in fuga, visto che posso regolare un gruppo ristretto. Per adesso mi sono trovato meglio tra i professionisti che tra i dilettanti, anche se non ho ancora preso parte a corse World Tour. So di avere margini di miglioramento e che c’è tanto da scoprire. Sono al servizio di Gianni Savio e della squadra, posso specializzarmi ma non voglio pormi limiti. La strada mette ognuno al proprio posto.

L’anno scorso ti sei aggiudicato la Sei Giorni di Torino
Con il mio compagno australiano Nick Yallouris ho partecipato alla Sei Giorni di Fiorenzuola, nella quale abbiamo vinto tre giri lanciati su sei e sono arrivato 4° nella finale di Classe 1 che dava punti mondiali. Da lì abbiamo fatto rotta su Torino. Sono arrivato all’appuntamento col morale alto perché è la corsa di casa e, grazie alla gamba che mi ha garantito Fiorenzuola, siamo riusciti a dominarla. Non era così semplice perché c’erano i campioni europei in carica e anche professionisti forti come Felline e Nizzolo. È stato un bel successo, credo abbia contribuito a far scattare qualcosa a Gianni Savio e all’Androni in vista di una mia riconferma.

Su strada, invece, sei rimasto all’asciutto
Dopo due anni con la Trevigiani mi sono trovato di fronte a un bivio. Con loro avevo colto qualcosa di buono, nel mio terzo da dilettante mi sono piazzato regolarmente nei primi 10 nelle volate della Vuelta a San Juan contro avversari come Boonen e Gaviria. È stata una sorta di scintilla che mi ha fatto capire che potevo giocarmela, perché piazzarsi senza disporre di un treno non è facile. Sono andato in Inghilterra, in una nazione che mi ha sempre affascinato avendo studiato lingue, e ho colto l’opportunità di correre con la Holdsworth.

Il tuo legame con il Velodromo Francone di Torino si è consolidato oggi con la nomina di testimonial della pista. Che effetto ti fa?
Mi passa in mente in un secondo il film della mia vita. Sono nato ciclisticamente con quel velodromo, vincere la Sei Giorni lì è stato sensazionale. Custodisco gelosamente una foto che venne scattata lì con Marco Villa e che volli a tutti i costi, e ora lui è diventato il mio commissario tecnico. Diventare testimonial del velodromo, aiutare i ragazzini ed essere uno stimolo in più, è invece motivo di grande orgoglio. Credo che sarò più imbarazzato io di loro. Sono molto sensibile all’argomento pista, perché è una disciplina che fa bene. In Italia le strade sono pericolose, è meglio avvicinare i ragazzi alla pista, che rappresenta un metodo sicuro per allenarsi e garantisce colpo d’occhio, oltre a formare il corridore.

C’è qualche corsa per la quale nutri dei rimpianti?
Potrei dire il Tour de Yorkshire, dove ho visto un pubblico mozzafiato e purtroppo per una serie di cose non siamo riusciti ad arrivarci competitivi. Il 2018 è stato un anno in cui non sono riuscito ad esprimermi bene su strada. Col senno del poi ho il rammarico di non aver avuto l’opportunità di continuare con la Trevigiani, dove si era creato il rapporto giusto. Ma non ho rimpianti, perché l’importante era passare. Lo considero l’insieme di tutti i gradini che ho scalato anno per anno, con serietà, impegno e costanza. Ora si riparte da zero.

Pista e strada: quanto ha contato l’interdisciplinarietà nella tua crescita come corridore?
Tantissimo. Sicuramente a una certa età ti pone davanti a un bivio, se si vuole far carriera. Alcuni, come un fenomeno come Viviani, riescono a coniugare le cose, ma non è semplice. Nelle giovanili conta molto, ad esempio a San Juan me la sono cavata da solo contro i treni di UAE Emirates Team, Bahrain-Merida e Quick-Step perché riuscivo a “vedere le scie”, una qualità che ti trasmette la pista. Lo stesso vale per il ciclocross, basti guardare i numeri che fa Van der Poel, che è sicuramente un talento ma che tante cose le ha imparate esercitandosi nella disciplina.

Hai già vestito la maglia della nazionale difendendo i colori azzurri nei campionati Europei e Mondiali su pista da Juniores. Che ricordi hai di quelle esperienze?
Ho preso parte agli Europei di Anadia in Portogallo e ai Mondiali di Glasgow col quartetto Juniores, chiudendo 4° e 9°. Sono state due esperienze fantastiche e che mi hanno ripagato di tanti sacrifici. La prima maglia azzurra ha un gran valore, è stata un premio per quanto fatto. Ho investito molto sull’attività, per allenarmi a Montichiari facevo complessivamente cinque ore di macchina ogni giorno dopo scuola e coniugare studio e sport non è stato affatto semplice. Al termine di quell’esperienza nella categoria ho trovato un contratto in Francia nel vivaio della Ag2r La Mondiale e lì, dove il settore pista è trascurato, sono uscito dal giro della Nazionale. Mi sarebbe piaciuto fare qualcosa in più, come prendere parte a qualche prova di Coppa del Mondo, ma non ne ho mai avuto la possibilità. Quest’anno rifarei volentieri la Sei Giorni di Torino.

Hai avuto un percorso particolare tanto da aver già sostenuto due periodi da stagista con la Androni, nel 2015 e nel 2018: che differenze hai trovato in questi due segmenti e quali rispetto ai dilettanti?
Nella prima ero più giovane, con meno forza fisica e meno esperienza. Ero più giovane in tutto, puoi peccare di calma nei momenti in cui serve. Durante la seconda mi sentivo già parte di un gruppo di professionisti. So che ripartendo da zero c’è tanto da imparare, ma erano scene che ho visto in gara e compiti che avevo già svolto in squadre Continental. Ero più formato e sicuro di me stesso e dei miei mezzi. Sono migliorato negli allenamenti e nell’alimentazione, ero pronto a fare quel salto. Se non ci fossi riuscito ci sarei rimasto molto male perché l’ho sempre voluto e preparato molto bene, nonostante non sia stato un vincente.

Nel tuo curriculum anche due esperienze nel vivaio dell’Ag2r La Mondiale e nella Holdsworth: quanto e in che modo hanno contribuito alla tua crescita come uomo e come atleta?
Mi sono iscritto al liceo linguistico perché mi ha sempre appassionato viaggiare e non avere problemi di comunicazione in qualunque paese possa trovarmi. Ho fatto due anni di università in Francia, ho sempre vissuto da solo e ho imparato a rimboccarmi le maniche. A livello personale non ho nessun rammarico, a livello atletico sì. In Francia sono un po’ uscito dal giro della Nazionale su pista, nonostante abbia vinto la Coppa di Francia. Forse avrei fatto meglio a dare fiducia a squadre italiane dilettantistiche e fare esperienze Continental al terzo anno.

Hai già preso parte alla Vuelta al Tachira avendo anche l’occasione di misurarti in volata nella terza tappa, chiusa poi al sesto posto. Raccontaci quello sprint e com’è andato il debutto stagionale
Eravamo pronti e motivati per dare il massimo nonostante fosse la prima gara dell’anno. Siamo andati lì per vincere, era importante farsi sentire per noi stessi, per il morale, per gli sponsor e per chi si impegna per far sì che noi corridori continuiamo nella nostra attività. Abbiamo vinto la prima volata con Benfatto, al quale ho lanciato bene una volata che lui ha chiuso nel migliore dei modi. Florez è sempre stato in classifica e ha vinto l’ultima frazione chiudendo quinto. Io, invece, ho avuto quell’opportunità che mi sarei potuto giocar meglio, Benfatto ha bucato e ho provato ad anticipare. Nel complesso è stata una trasferta positiva: ci ha permesso di ottenere buoni risultati che “fanno rumore” in Italia, di correre al caldo e di arrivare preparati agli appuntamenti europei.

Conosci già il tuo calendario per il resto del 2019?
Fino a marzo prenderò parte al Tour La Provence (14-17 febbraio) e alla Vuelta a Andalucia (20-24 febbraio). Sono contento di potervi partecipare, sono due belle corse alle quali ci presenteremo con uomini esperti come Belletti e Cattaneo. Voglio arrivare lì preparato e non sbagliare il colpo, riponendo le ambizioni personali e dando il massimo. Il livello sarà alto, ma magari verrà fuori anche una tappa in cui sarò più libero. Se così fosse, preferirò prendere aria in faccia, far vedere lo sponsor sulla maglia e il mio cognome sullo schermo. Preferisco fare fatica anziché stare in gruppo. Sono sicuro che faremo una bella figura.

Qual era il tuo idolo quando hai iniziato ad andare in bicicletta?
È sempre stato Tom Boonen. Dopo San Juan ho appeso la foto dell’ordine d’arrivo in camera con la sua vittoria e il mio piazzamento tra i primi. Come stile in bici, vittorie, classe, personaggio, serietà atletica e continuità di risultati non ha eguali. È sempre stato pronto in tutte le corse e disponibile con gli sconosciuti. Pensate che un giorno gli ho mandato un’e-mail e mi ha anche risposto…

C’è un corridore tra quelli attuali che apprezzi particolarmente o che sei curioso di vedere da vicino in gruppo?
Come caratteristiche e come personaggio direi Peter Sagan, anche se può sembrare scontato. Ha saputo crearsi un’immagine, andar forte e far centro su tutti i fronti: sportivo e della comunicazione. Anche Elia Viviani mi piace un sacco perché è meticoloso, non sbaglia un colpo né su strada né su pista, non lascia nulla al caso. Da lui mi piacerebbe imparare davvero qualcosa.

Ti sei posto degli obiettivi personali per questa stagione?
Uno me lo sono già tolto: vedermi cresciuto molto a livello atletico. Non sono mai stato seguito sulla nutrizione, almeno non come adesso. Ora sono monitorato sull’alimentazione e negli allenamenti. C’è uno scambio giornaliero col mio preparatore Andrea Giorgi, ci sentiamo praticamente ogni giorno e anche su me stesso, semplicemente guardandomi allo specchio, ho notato miglioramenti. È il primo motivo di soddisfazione, perché significa che non sono arrivato al professionismo già “finito”. So di avere margini e sono curioso di sapere dove potrò arrivare. Ho questo fuoco dentro che arde di conoscere cosa potrò realizzare.

C’è una corsa alla quale vorresti partecipare in maniera particolare?
La Milano-Sanremo e, se non fosse così dura com’è oggi, la Milano-Torino. Adesso con la doppia scalata al Superga la vedo dura per me. Magari ci fosse ancora l’arrivo nel Velodromo…

E quella che sogni di vincere?
Come classiche mi hanno sempre affascinato quelle del Nord. Anche se non sono strutturato per farla, direi la Parigi-Roubaix perché è l’apice del ciclismo, della sofferenza. È qualcosa di mitico che non riesco a vedere nelle montagne, è un libro, una storia che si racconta da sé, con atleti che arrivano sfatti al traguardo. L’ho corsa da under 23 ed è qualcosa di magico. Per me quella corsa è un libro che puoi raccontare ai nipoti.

A fine 2019 ti riterrai soddisfatto se…
Se riesco a capire che posso crearmi un ruolo tra i professionisti. Iniziare a crescere sapendo di aver trovato un ruolo e non passare nell’anonimato. Credo sia più importante che vincere due corse minori. Le squadre sono poche e tra corridori è una lotta per la sopravvivenza, trovarsi un ruolo è importante. Mi piacerebbe diventare un ultimo uomo valido, se dovessi portare un esempio direi come Maximiliano Richeze: fondamentale come apripista e vincente quando può mettersi in proprio.

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